Come per magia, nei giorni successivi quasi tutte le nostre decennali paure sarebbero lentamente scomparse. La barriera della prudenza era crollata quasi definitivamente, e tutte quelle angosce con le quali avevamo imparato a convivere, quella difficoltà nel gestire contemporaneamente timori e speranze, quel pessimismo da autodifesa che avevamo imparato ad utilizzare come uno scudo per le nostre sofferenze, tutto questo era stato travolto da uno tsunami di gioia, di ottimismo, di positività. I miei piccoli problemi quotidiani scomparivano subito, come per magia, al solo pensiero di quelle immagini, che avevo come stampate nella testa e nel cuore: quel moto perpetuo, quella manina che si muoveva e sembrava volerci salutare, quelle braccine che si strofinavano gli occhi, appena accennati eppure già così espressivi. Sì, quel 25 marzo 2008 non ce lo saremmo mai dimenticati, per quanto il risultato finale fosse ancora lontano sei mesi.
Non sarebbe passato molto tempo prima che la realtà ci riportasse con i piedi per terra. Eravamo a metà della quattordicesima settimana, ed avevo appena finito di giocare a calcetto con gli amici, come facevo ogni martedì. Accesi il cellulare, e trovai una chiamata da casa. Richiamai subito. Rispose mia madre, che era scesa da noi.
“Andrea, vieni subito a casa, dobbiamo andare in ospedale. Ha delle perdite rosse”.
Per un minuto, non capii letteralmente più nulla. Non potevo credere che stesse accadendo davvero. Era come se fossi affacciato alla finestra e stessi assistendo ad una vicenda che riguardava un’altra persona. Vestito com’ero, in pantaloncini e maglietta, mi fiondai verso la macchina e mi diressi verso casa. Durante il tragitto, pregai anche ciò in cui non credevo. Non portarmi via anche questo, ti prego, non portarci via il nostro bambino, continuavo a ripetere ad alta voce, come un automa. E nemmeno sapevo a chi stavo rivolgendo quelle parole.
Arrivai a casa e la trovai sul divano, bianca come un lenzuolo. E mia madre era conciata anche peggio. Mi cambiai velocemente, senza nemmeno sapere cosa mi stavo mettendo addosso, e dopo aver atteso anche l’arrivo di mia cognata corremmo in ospedale. Era la stessa, precisa, identica scena vissuta il 3 gennaio 2007, e l’incubo che anche l’esito potesse essere lo stesso ci stava letteralmente devastando. Anche lo studio all’interno del quale ci trovavamo era lo stesso. La gentile infermiera ci fece subito accomodare, ma il ginecologo di turno era appena uscito. Attendemmo il suo arrivo per oltre mezz’ora, periodo che trascorsi cercando di calmarla e di calmarmi. Lei si sdraiò sulla poltrona, io iniziai a camminare avanti e indietro per il reparto, prima passando di fronte alla stanza dov’era stata ricoverata per il raschiamento e poi arrivando di fronte alla vetrata dei neonati. La prima la superai velocemente, come ad esorcizzare la paura di rivedere mia moglie lì dentro, mentre davanti alla seconda mi fermai, e guardando le culle ricominciai a bofonchiare qualcosa d’indefinito, probabilmente pregando ancora una volta qualcosa e qualcuno che non sapevo. Di certo pensai “tra cinque mesi mio figlio deve essere lì”.
Tornando verso lo studio all’interno del quale si trovava mia moglie, mentre pensieri positivi e negativi si accavallavano senza soluzione di continuità, incontrai una donna col pancione tipico dei nove mesi, evidentemente prossima al parto (o forse intenta a passeggiare proprio per accelerare il processo), e riuscii a sorriderle. Il medico non era ancora arrivato, ed allora controllammo e ricontrollammo: delle perdite non c’era più traccia. Cercavo comunque di prepararmi al peggio, ovviamente mostrando una faccia completamente diversa, sicura ed ottimista, salvo poi concludere che stavolta non era davvero possibile essere pronti. Mentre l’accarezzavo, lei mi disse “se va male, voglio una pastiglia per morire“. Io manco riuscii a risponderle. Forse perché quell’ipotetica pastiglia l’avrei voluta anch’io.
Finalmente, arrivò il dottore. L’ennesimo, perché non l’avevamo mai visto prima. Per dissimulare la tensione che mi attanagliava pensai a quanti medici, infermiere e specialisti vari avessero visto mia moglie in tutti quegli anni, e conclusi che il numero superava abbondantemente la doppia cifra. Informammo anche lui sul nostro background e sugli eventi di quella sera, dopodiché cominciò la procedura dell’ecografia. Mi accomodai sulla sedia che si trovava di fianco alla poltrona, ed iniziai a stringermi il volto tra le mani, proprio come avevo fatto un anno prima, e probabilmente rendendo la mia espressione ancora più trasfigurata di quanto già non fosse per conto suo. Pochi secondi di silenzio, dopodiché sullo schermo, pian piano, iniziò a comparire qualcosa. Lui sorrise, appoggiò una mano sul ginocchio di mia moglie (che non voleva vedere) e le disse “girati, e guarda tuo figlio”. Quel sorriso e quella frase ci avevano già detto tutto ciò che volevamo sentire: il bambino era in perfetta salute, ed il cuore batteva come un tamburo. 75 millimetri di gioia. Come da copione, io iniziai a singhiozzare ed a baciarla sulla fronte, mentre lei era ancora una maschera di paura. Avevamo superato anche quella.
Armato della foto del nostro bambino (ormai avremmo potuto completare un album solo con le ecografie), uscii subito a comunicare la notizia a mia cognata ed a mia madre, che ovviamente si mise a piangere. Le perdite erano quasi certamente effetto delle punture di eparina, come ci avrebbe confermato il giorno dopo il nostro angelo di Varese, ed alla fine quell’enorme spavento, quella serata che avrebbe potuto sconvolgere la nostra vita in un modo che nemmeno potevamo immaginare, si trasformò in un ulteriore iniezione di fiducia, anche grazie alle confortanti parole del dottore. Poteva finire col desiderio di assumere una pastiglia per morire, ma stavolta noi eravamo dalla parte della vita. E sentivamo che ci saremmo rimasti, forse perché avvertivamo tutta la valenza simbolica dell’essere riusciti a superare quell’ultimo ostacolo, dell’aver esorcizzato il peggiore dei nostri incubi esattamente laddove aveva preso forma, cioè fra quelle stesse mura che poco più di un anno prima avevano testimoniato la nostra disperazione. Ed era bello pensare che quelle macchie rosse fossero state il modo attraverso il quale il nostro bambino aveva deciso di comunicarci quel messaggio.
Uscendo dallo studio, transitammo davanti alla “stanza del raschiamento”. La porta era aperta, la luce spenta, entrambi i letti vuoti. Passammo oltre con un sorriso, ma fatto qualche passo decisi improvvisamente di tornare indietro verso quella stessa camera, quindi afferrai la maniglia e chiusi la porta. E stavolta quel rumore, decisamente meno soffice ed impercettibile di quello delle porte scorrevoli, mi sembrò una musica celestiale.
Estratto di “Volevo diventare papà. Storia di un sogno e di una lotta d’amore”, Andrea Rosselli per la Casa Editrice Mammeonline.