Ami correre.
Più di ogni altra cosa al mondo.
E sei pure brava. Hai grandi potenzialità. Chissà, potresti diventare una grande maratoneta, un giorno.
Hai intenzione di allenarti a fondo per riuscirci, perché questo è il sogno della tua vita.
Un giorno sei coinvolta in un incidente, senza averne alcuna colpa. Entrambe le gambe ti vengono amputate.
In un istante, la tua intera esistenza viene stravolta. I tuoi piani, annullati dal destino.
Non puoi più correre.
Non puoi più fare ciò ami di più.
Non potrai mai realizzare il tuo sogno.
Imprechi, ti chiedi “perché proprio a me?”, urli contro il cielo, ma non serve a niente. Non esiste risposta.
I medici dicono che, grazie alle protesi, forse potrai tornare a correre, un giorno. Ma è una strada lunga e faticosa, che non sai se riuscirai mai a percorrere fino alla fine. Insomma, il sogno di vincere maratone ora è veramente lontano anni luce.
Ti senti (sei!) mutilata, nell’anima ancor prima che nel corpo. Ti senti brutta, inutile, non vedi più un futuro.
La gente attorno a te non fa altro che ripeterti che “poteva andare peggio”, che “dovresti trovare un’altra passione, non c’è mica solo la corsa”, addirittura c’è chi dice che “forse ti sei meritata di essere coinvolta in quell’incidente!” e c’è chi minimizza dicendo “magari con le protesi tornerai a correre meglio di prima, non lamentarti!”
E ad un tratto ti accorgi (non te ne eri mai resa conto, prima!), che tutti, attorno a te, corrono.
Corrono forte come il vento.
Affrontano maratone.
Le vincono, pure!
Davanti a te si vantano dei loro ottimi tempi, e di quanto amino questo sport.
Tu li ascolti con invidia e rabbia. Vorresti che restassero in silenzio, che parlassero di altro, almeno davanti a te. Che ne so, di scacchi. Di libri. Cucina. Qualcosa che tu puoi, che sai fare.
E, invece, tutti parlano solo e soltanto di corsa. A nessuno importa il fatto che tu non abbia le gambe… Sembrano non ricordarsene nemmeno, anche se è evidente che doversi muovere su una sedia a rotelle è per te una punizione, che questa tragedia ti ha rovinato la vita; una vita che, senza poter correre, non senti neppure meritevole di essere vissuta.
Se qualcuno nota il tuo stato d’animo, ti accusa di atteggiarti da “vittima” e di non essere “di compagnia”.
Possibile che non si possa parlare di maratone davanti a te? Solo perché tu non hai le gambe? Devi accettare il fatto che noi possiamo correre e tu no! Fattene una ragione!
Tu, però, non riesci proprio ad accettarlo. Quelle persone non lo sanno, ma tu stai girando mezzo mondo per riuscire a trovare le protesi giuste per te. Non importa quanti anni di riabilitazione e di allenamento ci vorranno: vuoi tornare a correre. Vuoi provare di nuovo quelle sensazioni.
E non importa se la maggior parte delle persone attorno a te afferma che dovresti accettare il tuo destino, che correre, alla fin fine, non è poi così divertente, e che sei un’egoista a voler a tutti i costi farti impiantare delle protesi… Sono così contro Natura!
A nessuno importa come ti senti tu. Cosa sogni tu.
Tutti sono concentrati sulla Natura, sul destino, su loro stessi, sui loro sogni e valori. Sulla loro realtà.
Una realtà che non è stata stravolta dal destino. Mentre tutto il tuo mondo, invece, è stato sconvolto.
Ecco, chiudi gli occhi e prova ad immaginarti questo scenario. Cerca di immaginare cosa proveresti, come ti sentiresti. È una brutta sensazione, vero?
È quello che ho provato io per quattro anni, durante la ricerca di mio figlio.
È quello che prova ogni dannato giorno una qualsiasi donna “diversamente fertile”.
Chiedo scusa per la metafora fisica e sportiva, ma è difficile far comprendere cosa si prova ad essere infertile a chi, per sua fortuna, non ha mai dovuto affrontare questo dolore.
È difficile perché, citando Oriana Fallaci, è “Incredibile come il dolore dell’anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il-plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non ti riesce aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare.”
Il dolore per l’assenza di un figlio, per l’incapacità di dare la vita ad un altro essere umano, è un dolore misterioso, invisibile, impalpabile.
Non c’è sangue, non ci sono garze né fasciature, non è un dolore eclatante, non è rumoroso.
Eppure, è un dolore capace di togliere il fiato, di impedirti di vivere, un dolore che ti priva della speranza.
È così che mi sono sentita per quattro anni.
Mentre tutte le amiche (quelle giovanissime, le coetanee, quelle più su di età, insomma, TUTTE) diventavano mamme, mi sentivo perennemente ripetere che avrei dovuto “accettare il mio destino”, che “non è la fine del mondo non poter avere figli” che “forse Dio aveva altri piani per noi” che “ero diventata ossessionata”.
Mi criticavano le donne che non avevano alcuna intenzione di diventare madre, quelle che lo erano diventate per caso, quelle che non facevano altro che sfornare bambini. Criticavano la mia scelta di insistere nella ricerca di un figlio, nella mia scelta di ricorrere più volte alla fecondazione assistita per riuscire a realizzare il mio, il nostro, sogno.
Mi dicevano che il mio sogno era sbagliato, che avrei dovuto scordarmi di diventare madre e concentrarmi su qualcos’altro. Agli occhi del mondo ero una donna capricciosa, che voleva ciò che non poteva avere… Ciò che non meritava.
Ogni maledetto giorno un vicino di casa, un conoscente, un commesso in un negozio, una cassiera, un collega, mi poneva quella dannata domanda: “E allora? Figli, niente?”
Ricordandomi così ogni giorno, anche in quelle rare giornate in cui riuscivo a vivere, nonostante tutto, il mio handicap, la mia mancanza, il mio dolore.
Facendomi sentire sbagliata, inadatta, vuota.
Ad ogni annuncio di gravidanza io mi dileguavo. Dovevo farlo, anche a costo di sembrare matta, antipatica, irrazionale. Dovevo farlo per difendere me stessa. Dovevo farlo per difendere il mio dolore dagli avvoltoi, da chi non aspettava altro che io cadessi, da chi aspettava soltanto l’occasione giusta per giudicare e sputare sentenze.
Ricordo che un giorno in ufficio venne una collega, che in quel periodo era a casa in congedo di maternità. Si presentò, come fanno tutte le neomamme, per mostrare all’ufficio il suo bambino appena nato.
La vidi, dalla porta a vetri dell’ufficio che si trovava proprio davanti a me, mentre spingeva la carrozzina e attraversava il corridoio, diretta verso la mia stanza.
Sorrideva ed era in forma smagliante, come io non ero mai stata, nonostante avesse partorito da poco.
Io ero grossa, sformata dagli ormoni, dalla sofferenza, dalla rabbia, da un miscuglio di emozioni negative che mi divoravano l’animo e mi imbruttivano, dentro e fuori.
Andai nel panico. Sudavo freddo. Non sapevo cosa fare. Non potevo, non volevo incontrarla. Non avrei saputo cosa dire. Non avrei saputo fingere di essere felice di vederla. Sarei scoppiata in lacrime, mi avrebbero preso per pazza.
L’idea di dovermi avvicinare a quella carrozzina, guardare il bambino, fare i complimenti alla mamma… Neppure nei miei peggiori incubi avrei potuto immaginare uno scenario più terrificante.
Non potevo essere costretta ad affrontare una prova del genere. Avevo il voltastomaco. Dovevo fuggire. Dovevo salvarmi!
So di suonare decisamente melodrammatica dicendo questo, ma, credetemi, è così. Dovevo salvarmi da quella mamma e dal suo bambino.
Corsi via. Nessuno se ne accorse, tutti erano troppo impegnati a salutare la collega-neomamma e riempire di complimenti il bambino, come se non avessero mai visto un neonato prima di allora.
Uscii dall’ufficio e mi chiusi in bagno. Iniziai a piangere. Avevo da poco fallito il mio secondo o terzo tentativo di fecondazione assistita, ora non ricordo esattamente.
Ero gonfia, brutta, stanca, triste, invidiosa, rabbiosa. Non mi riconoscevo neppure più.
Mentre piangevo mi rendevo conto di sembrare patetica.
Ero fuggita dalla mia postazione di lavoro per chiudermi in bagno a piangere. E tutto questo solo perché una collega era entrata in ufficio con una carrozzina!
Quando rientrai in ufficio mi scusai con il mio capo per l’assenza; gli dissi che mi era venuto un attacco di mal di pancia. Nessuno si accorse che i miei occhi erano rossi e lucidi. Ne ero sollevata, e al tempo stesso addolorata. Avrei tanto voluto che qualcuno si accorgesse di quanto stavo male…
Potrei raccontare decine di episodi di questo tipo, di episodi in cui il dolore ha condizionato la mia vita.
Anche chi era a conoscenza del mio problema non si faceva scrupoli a parlare davanti a me di neonati, donne incinte, gravidanze di questa o quell’altra conoscente in comune.
Ogni volta cercavo, invano, di cambiare discorso; altre volte mi sforzavo per essere “di compagnia”, per fare domande, mostrarmi interessata o intenerita, tutto questo mentre dentro urlavo, mentre pregavo quelle persone di parlare di altro, di qualsiasi altro argomento.
Quando finalmente rimasi incinta, un’amica mi disse: “Meno male, ora finalmente si può parlare di bambini e mamme senza che tu dia di matto!”
Quella frase mi fece male, un male cane, mi fece più male di tutti i: “E voi? Figli, niente?” che ho dovuto sopportare in tanti anni da parte di conoscenti, vicini di casa, commesse…
Il dolore senza colore, la sofferenza priva di sangue, è difficile da vedere, e altrettanto difficile da comprendere.
E se io parlo spesso di questo argomento, mettendo da parte la vergogna (vergogna di cosa, poi?) e mostrando le mie debolezze e i miei errori, mettendomi a nudo, è solo perché non voglio più che nessuna donna “madre senza figli” si senta come me. Smarrita, sola, incompresa.
Fate un piccolo sforzo, mamme, provate ad immaginare come sarebbe la vostra vita senza quella piccola creatura al vostro fianco. Provate ad immaginare cosa voglia dire dovervi imbottire di ormoni e medicine, e lasciare che i medici analizzino ed esplorino il vostro corpo per anni come una cavia da laboratorio, tutto questo solo per realizzare il naturale desiderio di avere un bambino.
Provate ad immaginarlo, e soprattutto mordetevi la lingua prima di chiamare una donna infertile “egoista” o “capricciosa”, prima di giudicare il suo sogno e il modo in cui sta cercando di realizzarlo.
Non siamo noi a scegliere i sogni che guidano la nostra vita. Sono loro a scegliere noi.
E una donna che cerca con tutte le sue forze, con tutto il suo animo, un figlio, è sempre nel giusto.
Nessuno ha il diritto di dirci che non possiamo più correre.
Noi corriamo e correremo sempre verso la Vita.