Prima di tutto ci fu lo stupore. Il giorno in cui io e Fabio facemmo l’amore senza preservativo ci guardammo con incredulità. A pensarci ora sorrido di quella emozione, dell’irripetibile vertigine di quando ci si affida al destino. Da allora sono trascorse innumerevoli delusioni, una ogni maledettissimo mese.
Eppure a ripensare a quella prima volta provo una immensa tenerezza per tutta quella ingenuità. Mi ero preparata a lungo a quel momento. Fin da bambina chissà perché avevo paura di non potere avere figli. Quando la mia relazione con Fabio cominciò a diventare importante ricordo benissimo che gli chiesi preventivamente se un giorno avrebbe voluto avere figli, poiché in caso contrario avrei voluto saperlo subito. A ripensarci ora fu un colloquio assurdo, così come assurda è la sensazione di “profezia che si auto-avvera” che mi porto dietro. Un anno se ne andò così, senza rumore.
Nulla accadde ma ci sembrava che tutto potesse ancora accadere. Poi decidemmo che con l’inizio dell’anno nuovo avremmo fatto qualche accertamento, ma lo dicemmo a bassa voce, per non essere spaventati dalle nostre stesse parole. Le luci natalizie erano ancora tutte accese e il dolore ancora tutto di là da venire. Istruzioni per l’esecuzione di uno spermiogramma perfetto: lo sperma va raccolto sterilmente, sono controindicati la presenza di saliva o altri liquidi biologici, bisogna centrare con il getto il barattolino e poi correre, ma correre davvero, al laboratorio.
Durante il tragitto tale barattolino deve essere tenuto al caldo e in posizione verticale, altrimenti gli spermatozoi si stressano. Ore sette e cinquanta del mattino. Fabio si chiuse in bagno. Alla radio stavano trasmettendo Risponde Zucconi. Non saremo mai più in grado di ascoltare quella trasmissione senza ridere di noi; quello era solo il primo delle decine di spermiogrammi che Fabio avrebbe dovuto eseguire, e tutti i campioni sarebbero stati raccolti alle sette e cinquanta mentre Vittorio Zucconi rispondeva alle domande degli ascoltatori. Abbiamo anche pensato di scrivergli per raccontarglielo, sono sicura che gli regaleremmo una bella risata.
Io aspettavo fuori con la giacca già chiusa e le chiavi della bicicletta in mano. Era febbraio. Presi dal cassetto un calzino di lana per tenere al caldo gli spermatozoi di mio marito. Mi misi a passeggiare lungo il corridoio, non volevo dare l’impressione a Fabio di essere in attesa fuori dalla porta. Aspettavo in silenzio e mi auguravo che tutto andasse bene.
La porta finalmente si aprì. Lui mi guardò con dolcezza e io avrei voluto abbracciarlo e dirgli va tutto bene, non è niente, e invece sorrisi goffamente, presi in consegna il barattolino, lo infilai nel calzino e lo tenni dritto nella mano. Ci guardammo, il calzino tra noi. La giornata era già talmente schifosa che avremmo voluto fosse ora di andare a dormire e invece era appena cominciata. Presi la bicicletta, il calzino con una mano e il manubrio con l’altra. Pedalavo il più velocemente possibile. Mi guardavo intorno come se tutti fossero maledettamente interessati a quel calzino che tenevo stretto come fosse un pulcino appena nato.
Arrivai in ospedale e il barattolo cadde a terra. Merda. Altro che stressati, pensai, gli spermatozoi si saranno tutti suicidati. Cercai il laboratorio, mi indicarono uno scantinato. Suonai il campanello, mi aprì un uomo che mi chiese nome e cognome dell’eiaculatore, ora esatta della raccolta e tempo trascorso dall’ultimo rapporto. Uscii alla luce del sole, stressatissima, ed erano solo le otto e venti del mattino. Mi accesi una sigaretta. Mai fumare prima di pranzo. ‘Fanculo. Ritirai gli esami di Fabio, i suoi spermatozoi erano pochi, tozzi e lenti. Nei momenti migliori dei mesi a venire avremmo ironizzato su di loro creandoci un immaginario dolcissimo di buffi e confusi brutti anatroccoli che sbattevano continuamente contro le pareti del mio utero o gli uni contro gli altri nel tentativo di compiere la propria missione. Sarebbero stati i momenti di maggiore forza, quelli in cui eravamo ancora in grado di ridere di noi.
Le settimane successive a quel primo esame furono di completo disordine. Non ero in grado di razionalizzare né di utilizzare le mie competenze mediche per capire cosa ci stesse accadendo. Non trovavo strumenti per codificare l’irruzione di tutto quel mondo esterno nella privatissima vita sessuale mia e di mio marito. La prima visita che facemmo dall’andrologo fu un disastro. Era stato un mio professore all’università e io provai un grande imbarazzo a trovarmi nel suo ambulatorio in quel contesto. Naturalmente non ti darà fastidio se eseguo l’esame della prostata a tuo marito senza farti uscire. Del resto sei un medico. E a tuo marito farà piacere sapere che ho le dita delle mani molto sottili.
Io rimasi muta. Sbigottita. Ho impresso nella mente lo sguardo di Fabio, a gattoni sul lettino, i pantaloni abbassati mentre il medico si infila i guanti. Un misto di umiliazione, dolore e paura. Allora qui tutto bene. Si rivesta pure. Dunque cara dottoressa, come sa ci sono molti dati in letteratura sulle possibilità di procreazione nei casi di oligo-terato-asteno-spermia. Certo, nel vostro caso la fecondazione assistita è un percorso direi obbligato, non penserete certo che un po’ di antiossidanti siano sufficienti. Dunque vi scrivo gli esami che dovete fare.
Feci uno sforzo incredibile per non iniziare a singhiozzare, avvertivo chiaramente le lacrime che scendevano da sole mentre cercavo di mantenere un contegno. Vedevo la scena da fuori e ne ero completamente estranea, due colleghi che parlano di qualcuno che non può avere figli. Fabio al mio fianco taceva, immagino volesse solamente uscire il prima possibile da quella stanza. Finalmente ci congedammo e ci ritrovammo all’aria aperta. Erano solo le otto del mattino ed era già un’altra giornata finita. Ci accendemmo una sigaretta. Il mio piano di contare le sigarette era completamente saltato.
Fabio era pallido, gli occhi piccoli e spauriti. Che cosa ha detto? Io non ci ho capito nulla, ho bisogno che qualcuno mi spieghi cosa sta succedendo… Avrei voluto prenderlo con me e portarlo via, dirgli che tutto si sarebbe sistemato. E invece gli dissi solo frasi sbagliate, lasciandolo solo con tutta quella nuova realtà da metabolizzare. È un problema molto comune, non devi sentirti in difetto proprio di nulla. Vedrai che tutto si sistema.
Era già chiaro allora che i problemi sarebbero stati enormi e che ciascuno ne avrebbe dovuta portare una parte che era assolutamente personale e non cedibile. Io non mi sarei mai potuta fare carico di come lui avrebbe dovuto fare i conti con se stesso e con quel nuovo problema che lo aveva investito. Né lui sarebbe mai potuto entrare nella crudele lotta interiore che di lì in poi avrei dovuto sostenere con me stessa per non incolparlo di tutto quel dolore che ci si era riversato addosso. Quella mattina fredda, in piedi su un viale dell’ospedale, si delinearono nettissime tre strade: la sua, la mia e la nostra. Con un senso di vertigine avvertii la concreta possibilità che quelle strade avrebbero potuto anche prendere direzioni diverse. Lasciai scivolare via il pensiero e ci separammo. Io andai verso il mio reparto e lui verso la macchina. In mezzo mille minuscoli pezzettini di vetro rotti.
Il capitolo Pezzi di vetro è tratto dal memoir “Nessuno esca piangendo” (Utet).
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2 risposte
[…] scrivere è Marta Verna, medico pediatra e donna alla ricerca di un figlio, che ha donato su ParoleFertili un capitolo del suo memoir “Nessuno esca […]
anche il mio lui ha lo stesso problema ma non l’ho lasciato..sto da 10 anni con lui e sono 3 anni da quando ci siamo sposati che ci proviamo ad avere un figlio ma non arriva. Anche lui ha fatto visite e spermiogrammi ora sono due mesi che sta facendo la cura di testosterone ma pensa stamattina mi sono arrivate e ho letto la tua storia…mi ci sono immedesimata…