E’ successo anni fa, ma il ricordo è vivido come se fosse accaduto ieri.
Era da un po’ che cercavamo di avere un figlio. Non tanto da contare i mesi, i giorni, i rapporti sessuali. Non tanto da sentire qualcosa rompersi dentro ogni volta che arrivava il ciclo, ma un po’. E poi guardi l’agenda e ti accorgi che hai un ritardo. E poi compri un test di gravidanza, e lo fai, e quello ti dice che sei incinta. E subito quasi non ci credi, ma poi reagisci, fissi un appuntamento dal ginecologo ma con calma. E passa qualche settimana, e inizi a googolare qualsiasi cosa, incessantemente. Ogni azione quotidiana diventa una ricerca su google: posso bere birra, posso mangiare questo e quell’altro, posso andare in bicicletta…Ma poi, pensi, le domande le farai tutte alla ginecologa.
Nel frattempo inizi ad abituarti all’idea che ci sia qualcosa che vive e cresce dentro di te. Inizi a guardarti allo specchio in modo diverso, cercando cambiamenti anche minimi. Inizi a cercare nel tuo corpo sensazioni inedite che ti diano la prova del tuo essere incinta. Inizi a pensare al dopo, a come sarebbe essere madre, davvero. Il tuo compagno è al settimo cielo e tu pensi anche, per quanto tutta la faccenda ti sembri ancora strana, misteriosa.
Ma va tutto bene, e qualche settimana dopo il test vai all’appuntamento con la ginecologa. Ci vai tranquilla, da sola – “figurati se devi prenderti un permesso da lavoro pure tu“, in bicicletta. Entri nello studio e dichiari piena di entusiasmo e sicurezza “sono incinta. vorrei sapere se posso andare in bicicletta/mangiare questo/bere quell’altro”. La dottoressa sorride nel suo studio rosa, dice si intanto facciamo un’ecografia eh. Inizia a visitarti e le piccole rughe intorno agli occhi si fanno più profonde. Sembra un po’ confusa, e il tuo entusiasmo iniziale inizia a mostrare piccole crepe sottili. Poi dice che ci sono due cuori. Gemelli, chiedi già in ansia? Ma lei prende tempo, continua ad andare su e giù manovrando quell’apparecchio, smuovendo quella gelatina fredda sulla tua pancia. Alla fine dice una serie di cose che tu non capisci tanto bene. Ma capisci la cosa essenziale: “non c’è battito”.
Quando ti sarai rivestita, e farai finta di esserti ripresa, ti spiegherà che è un caso di gravidanza gemellare monocoriale, tipo due gemelli in un sacco solo. Pare che sia una di quelle cose che la natura a volte fa e poi si accorge che ha fatto una cazzata e decide di fare marcia indietro. Come nel tuo caso. Che poi a volte invece va bene, eh, però insomma è un casino da portare avanti, questa gravidanza gemellare monocoriale che non hai capito bene cos’è è forse non lo vuoi capire nemmeno.
Tanto non esiste più. Cancellata da un aborto spontaneo nelle prime settimane. Un aborto senza sintomi apparenti, di cui tu non ti sei neppure accorta. Senza sangue e senza dolore. Un aborto silenzioso e muto. E forse è stato meglio così, forse davvero non era cosa, e la natura ha deciso per te.
Te ne vai da quello studio rosa, che sembra lo studio di Barbie ginecologa, se mai ne faranno una. Senza piangere, perché c’è troppo dolore per piangere. E’ come se fossi rotta. Chiami lui e gli dici solo “no”, non riesci nemmeno a spiegare, a trovare le parole, mentre scendi dalle scale eleganti di quel palazzo di inizio secolo che ora ti appare cupo e sinistro, tanto quanto ti appariva ridicolo lo studio rosa Barbie. Prendi la bicicletta e sbagli strada, pedali senza senso tra viali che conosci da trent’anni come se fossi in una città straniera. Non riesci a tornare a casa, non riesci a telefonare a nessuno. Pedali e poi cammini e ti compri perfino le sigarette, tu che non fumi da anni. E poi arriva lui e insieme bevete. Cos’altro potresti fare? Il tavolino del bar si riempie di bicchieri di bianco vuoti, e hai mangiato solo qualche nocciolina. La testa si fa leggera, confusa, vuota, ed è proprio quello che vuoi. Non pensare.
Sarà il tuo modo di reagire, bevi e fumi più di quanto tu non pianga. Non piangi quasi mai quando sei triste davvero. Il pianto è per la commozione, per i film strappalacrime e per le storie a lieto fine. Non per il dolore, non per l’interruttore che si è spento dentro. Non lo chiamerai mai “bambino” o “bambini”, resterà sempre una cosa dentro di te. Fino al raschiamento, ma quella è un’altra storia. E poi per sempre, qualcosa che si è rotto dentro.
Dal blog Pannolini&Prosecco