«Mi metto seduta, preparo la siringa, mio marito mi guarda non sapendo cosa fare, osservo l’ago a lungo, mi fa paura infilarlo nel ventre. Mi dico: è solo un attimo, forza… – Mi sento sola – Perché tocca a me e non a lui? – Premo veloce il liquido, cerco di non pensare che gli ormoni fanno venire i tumori – Chissà quante ne dovrò fare ancora? Non sono così coraggiosa. – Ormai è andata, forza liquido fai il tuo dovere, verso i follicoli via… – In quel momento mi sento già mamma, perché una mamma dà tutto quello che ha per i suoi figli, ma la mia pancia è vuota e il mio bambino non c’è ancora», racconta Elisabetta.
Intraprendere un percorso di fecondazione assistita significa per una donna affrontare prove molto difficili dal punto di vista personale: innanzitutto vuol dire spogliarsi dei propri vestiti e mostrare le parti intime del proprio corpo allo sguardo di molti. Gli accertamenti clinici, volti ad approfondire le cause mediche dell’infertilità, per la donna sono molteplici e a volte dolorosi. L’aspetto è tutt’altro che irrilevante per il valore che assume il vissuto del corpo nella sterilità. Il corpo che non genera è innanzitutto sentito come inadeguato, vuoto, difettoso, mancante; è un corpo tradito e nello stesso tempo, traditore eppure è anche un corpo vivo, pieno di desiderio e di speranza. Il corpo sterile è un luogo di conflitto. Nudo nei suoi timori, bisognoso di ascolto e di attenzione.
Nell’atto di spogliarsi la donna scopre anche la propria fragilità e la mette a nudo di fronte al professionista di turno.
La superficialità con il quale viene trattato il corpo e l’invasività fisica, ma soprattutto psichica, rappresentata dalle visite specialistiche e dalle cure mediche, possono avere una natura traumatica e lasciare ferite difficili da identificare.
Estratto da “La cicogna distratta: Il paradigma sistemico-relazionale nella clinica della sterilità e dell’infertilità di coppia”, Franco Angeli Edizioni.