Non ebbi reazioni quando lessi per la prima volta quella parola su una prescrizione medica, perché quella condizione non si addiceva a nessuna delle mie personalità multiple da donna in balia di montagne russe ormonali. Il rifiuto si tradusse in pensieri poco lusinghieri per il mio medico curante: infertile a chi? Maledetto iettatore!
Come nelle peggiori favole, quelle che non subiscono il revisionismo melenso della Disney, venne fuori che infertile lo ero davvero e che le cause alla base della mia infertilità erano molte.
Le tube, innanzitutto. Dotate di un inappropriato senso dell’umorismo. Nel settembre 2013 mi sottoposi ad un impronunciabile esame, che inaugurò, di fatto, la lunghissima trafila di visite, prelievi, invasioni barbare di intimità. L’isterosalpingografia. Il referto fu confortante: tube pervie. Due anni più tardi, marzo 2015, il medico (diverso) del centro specializzato in problemi di fertilità a cui decisi, finalmente, di rivolgermi, mi consigliò una laparoscopia. La sua parola di capo indiscusso delle vagine difettose contro il mio scetticismo di fronte alla prospettiva di dover affrontare un vero e proprio intervento, in una vera sala operatoria, sotto anestesia totale.
Le tube furono ricontrollare solo per scrupolo. Per un eccesso di zelo, quasi paranoia.
Erano chiuse. Così intasate da richiedere un massiccio intervento ostetrico.
Nonostante l’idraulica applicata all’apparato riproduttivo avesse dato i suoi frutti, sturando di prepotenza quei sottili affarini, i sei mesi di free sex che seguirono furono infruttuosi.
Scoprii così che il sillogismo le tube sono pervie perciò funzionano presenta, in realtà, una sorta di vizio di forma. Nel mio caso, ad esempio, l’intervento avrebbe potuto essere risolutivo per un verso, distruttivo per l’altro. Nello specifico le ciglia che coadiuvano il passaggio dei prodi soldatini all’interno del tunnel della Manica avrebbero potuto rovinarsi a causa del prepotente intervento del Mr Muscolo idraulico gel, col risultato di avere un varco aperto si, ma impraticabile.
Il sangue. Una mutazione genetica mi predispone al rischio di aborto spontaneo. Il pericolo si chiama iperomocisteinemia. Un valore, l’omocisteina, sconosciuto ai più e tristemente noto alle donne che hanno perso il primo figlio, spesso pure il secondo, perché ignare della sua alterazione. Io? Beh, ho fatto le cose in grande. Ce l’avevo a palla. Così alto che avrebbe potuto creare problemi persino nella primissima fase della gravidanza: l’impianto.
Infine lo zucchero. Sono insulinoresistente. Causa banale d’infertilità, molto diffusa e relativamente semplice da scoprire e tenere a bada. Basta una curva glicemica da carico di glucosio, la cura, invece, è farmacologica e alimentare. L’insulina in eccesso provoca, nel migliore dei casi tra cui il mio, un’ovulazione incompleta ma difficile da individuare perché nascosta da cicli regolari, nel peggiore dei casi un ovaio policistico. Oltre, ovvio, al rischio di diabete di tipo due.
Ho scoperto questa condizione solo dopo tre anni di ricerca e solo grazie alla professionalità di un medico che non s’è mai fermato all’apparenza e che al primo appuntamento, quando in mano non avevo altro che una diagnosi d’aria fritta e un pacco di non ci devi pensare che gravava come un macigno sul mio equilibrio psichico, ha semplicemente detto: il sine causa? Ma per favore, il sine causa non esiste.
Dopo tante peregrinazioni, referti e cure ho finalmente, da poco, intrapreso il percorso più difficile: la fecondazione in vitro.
La mia storia è la storia di un viaggio negli inferi, di dantesca memoria. Una sorta di Divina Commedia 2.0 con un paradiso, per ora, solo ambito.
La mia storia è una storia comune. E’ la storia di Anna, di Silvia, di Michela, di Valentina, di Maria.
La mia storia è poliedrica, è un paradosso infarcito di qualche presa per il culo, è una punta di sfiga e malasanità. E’ una storia di istinto e di speranza.
Soprattutto, di tenacia e pazienza.
L’ho condivisa per passione, per esorcizzare la paura, per mettere in riga pensieri sparsi. E poi l’ho fatto per altruismo, perché spero un giorno possa essere un appiglio, una speranza, un motivo di sprono, una dedica a tutte quelle meravigliose donne che lottano indefesse e fiere, che donano se stesse per il proprio figlio prima ancora che venga procreato, quando il suo alito di vita è solo una speranza di dono.
5 risposte
[…] Parole fertili: Il sine causa non esiste. Un cammino lungo la diagnosi […]
[…] La metafora di ParoleFertili è il dono: della propria storia di vita, delle proprie emozioni, di come ci si può sentire sempre e comunque fertili. L’invito ad adottare queste storie è un invito a rispecchiarsi e a ritrovarsi nel racconto degli altri. ParoleFertili è una delle modalità con cui le storie possono prendersi cura: offrendo significati, ispirazione, coraggio, forza, parole per dire la paura e lo sconforto. Proprio come lo racconta Princess, un’altra blogger che ha voluto contribuire con la sua storia: […]
Iettatore! Complimenti per la tua storia, e per l’ironia con cui riesci a raccontarla. E’ una grande dote, non solo nella scrittura, ma anche e sopratutto nella vita.
Grazie!
Concordo, anche se a volte l’ironia è molto difficile 🙂
Ciao La Princess S.! Potresti metterti urgenetemente in contatto con noi? Scrivici su info@parolefertili.it
Grazie!