Lo sfasciacarrozze è fuori città, è alla fine di un viaggio, nella polvere, un viaggio assediato dai rovi e accecato dal frastuono delle cicale. Varchiamo un grande cancello arrugginito e ci addentriamo fra le carcasse bollenti delle macchine, nella luce abbagliante di un sole sempre più invadente, fino a quando scorgiamo un uomo che si aggira, come un monarca sopravvissuto a un’esplosione nucleare, in quel grottesco cimitero.
Quando scendo dall’auto, il calore che sale a vampate dal terreno è quasi intollerabile.
Io e l’uomo parliamo.
È una strana conversazione. La seguo dall’esterno, come se vedessi me stesso e quest’uomo mentre muoviamo la bocca e pronunciamo delle parole.
Come se tutto questo non stesse avvenendo realmente.
Anche la sua voce ha qualcosa di strano, forse, è troppo lenta e profonda. Sembra immune al caldo, veste una tuta da lavoro blu e una camicia e, mentre avverto ancora questa sensazione di irrealtà, noto che non sembra infastidito dalle gocce di sudore che gli scivolano lungo il viso.
Il calore continua a salire a vampate dal terreno, ed è sempre un calore intollerabile, e io e quest’uomo continuiamo a parlare, lui dice che forse c’è quello che cerchiamo, dice di tornare più tardi e poi scompare nel ventre arrugginito del suo labirinto.
Risalgo in macchina.
Sono sfinito, fradicio di sudore.
Pensiamo di azzardare un giro per le strade di campagna che ci stanno attorno.
Giusto per lasciare che questo tempo passi via.
Trascorre quasi un’ora e nessuno dei due parla, io continuo a guidare, ma ormai i miei pensieri guizzano frenetici qui e là simili a pesci in una pozzanghera asciutta.
Penso che è l’estate più calda degli ultimi venti anni, penso che è un’estate rovente, un’estate che ferma il cuore, ma mi ripeto, non smetto di ripetermi, che prima o poi tornerà l’inverno.
Mi volto verso Roberta per rivolgerle un sorriso e vedo che sta piangendo, lo fa in silenzio, senza distogliere lo sguardo dalla strada.
Poi si gira verso di me e mi guarda in modo strano.
«Non piangere», mi dice.
Io mi scuoto.
Non so da quanto tempo le lacrime sono sul mio volto e tento, inutilmente, di riprendere il controllo. Devo reggere per lei, mi dico, ma so bene che, arrivati a questo punto, è impossibile.
Fermo la macchina. Ci prendiamo per mano e ci guardiamo a lungo. Non posso più lasciarle la mano, e capisco che questo istante mi resterà aggrappato alla memoria per sempre.
«Sai», le dico in un sospiro, «ho sempre pensato di dover ignorare e nascondere il mio dolore per poter pensare a te.»
Lei mi guarda e mi sorride, anche se è stremata.
«Ma ora capisco», aggiungo, «che così ci lasceremmo da soli, ognuno solo, con il suo dolore.»
Passano i giorni.
Parliamo a lungo, ci raccontiamo quello che succede, non ci stanchiamo di farlo e in qualche modo ci sentiamo più forti. Io, raccontando la mia fragilità, ho la sensazione di essermi liberato da una prigione che portavo dentro di me.
Poi il medico ci chiama, i dosaggi danno una speranza.
Guardo Roberta e decido di non restare in silenzio.
«Ho paura», le dico. «Avrei preferito un’altra notizia, adesso un’altra perdita non so come potrei reggerla, sono state troppe.»
Lei annuisce.
«È quello che penso anche io.»
I giorni scivolano via uno dopo l’altro, e non ci portano buone notizie. Roberta deve lasciare che, con lame e attrezzi di metallo, ripuliscano l’interno del suo corpo da ogni traccia della vita che stava nascendo. L’operazione viene eseguita, ma capita qualcosa di sbagliato e, dopo qualche settimana, lei deve entrare in sala operatoria per subire un altro, uguale, intervento.
Ora gli infermieri spingono nella camera la barella e io poso il quaderno su cui stavo scrivendo. La guardo. Si sta svegliando dall’anestesia, dice qualcosa, ma ancora non la capisco, perché la sua voce è impastata, e i suoi occhi ancora vedono un mondo tessuto di sogni. La accarezzo e le parlo piano, la accompagno come posso, le racconto quello che succede, e lei mi sorride, forse per chiedermi scusa delle nostre sventure.
Il suo volto, rilassato dai farmaci, sembra più giovane, i suoi occhi sono tranquilli, come lavati dalla pioggia.
«Devo dire che l’anestesia ti dona, potresti farla più spesso», dico. «Sei davvero bellissima.»
Un sorriso tenta di mostrarsi sul suo viso, ma, mentre appare, si disperde in cento rivoli di stanchezza.
«Non è vero. Devo essere orribile.»
La bacio. L’odore dei farmaci è forte, e non posso fare a meno di pensare a quello che sta sopportando il suo corpo.
«No», sussurro. «Tu non sarai mai orribile.»
Mi siedo accanto a lei e ci prendiamo per mano. Dopo qualche istante lei si addormenta e io inizio a leggere, aspettando che si svegli. Fuori, intanto, questa estate, che brucia via l’anima, prima o poi si dimenticherà di noi. Fuori, mi dico, prima o poi qualcosa cambierà, e tornerà l’inverno.
Il terzo estratto del capitolo “I giorni della perdita” è tratto dal romanzo “Sei sempre stato qui”.
© 2016 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
per Edizioni Frassinelli