Da dove arrivano gli angeli

Quarantenne alla ricerca da anni di una gravidanza

Entro per la quinta volta in questa sala operatoria gelida. La posizione sul tavolo è scomoda ma per fortuna a qualcosa son servite le asana praticate per tanti anni, solo mi chiedo perché ogni volta mi debbano imbragare le gambe con quei lacci neanche fossimo al manicomio. In realtà lo so: non devo muovermi per nulla, non un movimento che mi faccia uscire dalla giusta posizione. Le altre volte almeno mi distraevo a guardar nello schermo dell’ecografo, e a vedere quel puntino di luce (il mio embrioncino) che alla fine appariva dentro alla mia cavità prima vuota, ma oggi lo schermo è girato ed io ho quella maledetta luce puntata in faccia. Di sicuro non è puntata volutamente sul mio viso ma molto più in giù, comunque è accecante e non posso far altro che chiudere gli occhi per evitarla. Le mie mani infatti sono sotto il lenzuolo verde, incrociate e ferme sotto il seno. Avrei voglia di parlare e chiedere delucidazioni su quello che stanno facendo lì sotto, ci stanno mettendo più tempo di quanto ricordassi, mi sta facendo più male, ma non oso disturbare la dottoressa, sento che è concentrata e percepisco una sua leggera difficoltà. Mentre mi ripeto che questa volta non devo piangere neanche una lacrima, neanche di commozione, penso che i bambini non dovrebbero essere fatti così, ma che comunque io ci proverò finché potrò, perché questo desiderio è più forte di tutto il resto.

(Oggi il mio bambino ha un mese e lo guardo come un grande miracolo. Davvero è un angelo che è sceso in terra per la mia gioia e per tutta la famiglia!

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