A 76 anni e 4 giorni, sono diventato di nuovo papà. Il 16 agosto del 2018, infatti, è nato Marcello grazie all’amore di mia moglie Sheila con i suoi 45 anni. Ci siamo sposati 12 anni fa e subito decidemmo di fare un figlio. Era un suo grande desiderio che ho subito accompagnato. Con il tempo, divenne chiaro che esistevano problemi fisiologici, per cui la scelta che si presentò fu di sperimentare la procreazione assistita. Iniziammo le ricerche che arrivarono a un punto decisivo: per motivi complessi, l’ovulo – pur fecondato – non rimaneva attaccato all’utero. La clinica privata a São Paulo ci coinvolse in diversi tentativi tutti falliti e divenne chiaro che dovevamo percorrere un’altra strada. Andammo a un centro specializzato a Valencia per la procreazione assistita. L’operazione ebbe successo.
Confesso che – immediatamente prima di questa scelta – alcuni pesanti dubbi avevano reso incerta la mia decisione. Un conto avere un figlio a 64 anni e ben altro impegno dodici anni dopo. La fermezza nella scelta di Sheila sulla maternità convinsero i miei dubbi non senza conflitti risolti con appassionate discussioni.
Il dado – o meglio l’ovulo – è tratto.
La gestione della gravidanza fu all’inizio complicata. Mia moglie dovette stare molto a letto nei primi tre mesi; poi tutto si stabilizzò e per i successivi tre mesi potè vivere una vita normale. Infine, gli ultimi tre sono stati alquanto difficili. La scelta del Policlinico Umberto I fu determinata dall’eccellenza dell’ospedale nel reparto ostetricia. Così iniziammo a frequenare un corso pre-parto diretto da una ginecologa eccellente, la Dott.ssa P. C.
Eravamo una quarantina di persone in una grande sala spoglia, in maggioranza donne sole incinte, con qualche compagno e una coppia gay. Confesso che mi sentivo imbarazzato all’inizio: stare insieme a persone sui 20-30 anni ed essere osservato con curiosità dalla dottoressa mi fece diventare studente fuori corso – io che ho insegnato per più di 35 anni in quella stessa Università: La Sapienza.
Quando Marcello è nato, ho vissuto emozioni e riflessioni accelerate. Emozioni riflesse. Le mie scelte divennero chiare nell’osservare quell’esserino appena uscito dalla pancia di Sheila. La sua fragilità estrema si trasfigurò in una potenza vitale, la forza della vita che si affaccia al mondo con la meraviglia di una volontà inerme eppure desiderante.
Nelle mie ricerche su e con la cultura Bororo, in Mato Grosso, emerse la forza della cosmologia indigena difesa attraverso i rituali. Nel loro funerale, estrema esperienza drammatica come antropologo, la trasfigurazione del cranio della persona morta in un antenato totemico (un arara o pappagallo grande) veniva interrotta a metà dall’iniziazione della classe di adolescenti che avevano raggiunto la pubertà e avrebbero potuto procreare. La vita e la morte si rincorrono sospese nello spazio temporale del rito nel villaggio bororo di Meruri. La cosmologia che annuncia Marcello – ogni bimbo – afferma i valori dell’umanesimo che si basano sulla bellezza della vita in espansione. Essa co-crea un movimento laicamente sacro che in qualche misura transita oltre la scelta del genitori. O almeno della mia.
La differenza di età tra me e Sheila l’abbiamo vissuta – la viviamo – come una ricchezza che colloca entrambi su una condizione di piccoli mutamenti continui. L’amore non è statico. È come la vita: accetta e affronta le sfide che si trova di fronte per trasformarle nella profondità dei sentimenti. Sentimenti profondi che non hanno limiti. L’amore transitivo deve scandagliare costantemente gli abissi che si spalancano di fronte improvvisi, per poi innalzare gli sguardi. Dislocare i corpi… E quando arriva il momento drammatico della scelta – in quel momento si è soli. La solitudine di ogni decisione radicale si deve basare sui valori della propria visione del mondo. Riflettendo da solo, durante l’ultima richiesta di andare a Valencia, ho avuto un momento di indecisione. La domanda che mi aleggiava intorno era banale eppur decisiva: una domanda carnale ed esistenziale. Immaginare un figlio che nasce durante i miei settantasei anni significa sprofondare in calcoli grossolani: domandarsi che lo potrei accompagnare nella vita, nella sua vita, per un tempo incerto e comunque breve. Forse troppo breve. Di più. Nelle mie esperienze relative al mio primo figlio, Marco, ogni scelta educativa era basata sul gioco. Una pedagogia ludica condivisa. Nuotare con lui che aveva due anni. Fare la lotta. Giocare per ore all’Iliade, in cui Greci e Troiani si affrontavano sull’alea dei dadi e dei valori assegnati a ciascun eroe. Correre nelle pinete per acchiapparlo quando volevo o, meglio, quando voleva. Tutti giochi che implicavano una forza fisica, un benestare del corpo che risponde alle sollecitazioni impreviste delle competizioni solidali, facendole apparire tra uguali anche se chiaramente asimmetriche. Bene: tutto questo sentivo che non sarebbe stato più possibile. Che il mio piacere paterno – più che il dovere – sarebbe stato segnato da un limite breve. Un piacere a tempo.
Qui si è smosso il mio posizionamento. Il figlio è mio, certamente mio e di mia moglie, ma è simultaneamete anche e soprattutto “suo”, di se stesso, di Marcello, in un processo cosmologico dove la vita si espande al di là delle scelte individuali o condizioni storiche. Il figlio è mio e non solo mio. La sua vita possibile mi è parsa come il più grande regalo di amore che avrei potuto offrire a Sheila.