Oltre le storie: intervista ad Antonella Briganti

Lo spazio di oggi della rubrica #oltrelestorie è dedicato ad Antonella Briganti, autrice del libro Non chiedermi come sei nata, di Cairo Editore,  un romanzo d’amore e fecondazione assistita.
copertinaBriganti

Ciao Antonella! Gioia Lieve, la protagonista del tuo libro, a 39 anni dopo un aborto inaspettato scopre di non poter avere figli. Dopo questo evento cresce in lei il desiderio sempre più forte di essere madre. A cosa ti sei ispirata raccontando la storia di Gioia? Quanto c’è di autobiografico?

La prima frase del mio primo libro è: “Ho aboannarita brigantirtito dieci giorni fa”. “Non chiedermi come sei nata” (Cairo), il mio debutto nella narrativa, è un romanzo-memoir, un’opera autobiografica, che racconta la perdita di un figlio e il mio tentativo di diventare mamma attraverso la fecondazione assistita. Ferite mai chiuse del tutto, ma scrivere mi ha aiutato a mettere zucchero su questo dolore e, stando a com’è andata l’opera, ai premi che ha vinto, soprattutto ai messaggi dei Lettori, è stata terapeutica per molti.

Quando vivi certi traumi, hai due possibilità, come accade alla mia protagonista-alter ego, Gioia, nel primo capitolo del libro. Lei, appena rientrata nella sua minuscola casa di Milano, dopo aver perso una figlia, durante un viaggio in Costa Azzurra, con conseguente raschiamento in un ospedale straniero, e sconvolgimento fisico ed emotivo, guarda fuori dalla finestra e vorrebbe buttarsi nella neve che sembra panna, con il suo piumino color ciliegia, lasciando solo un biglietto, di pavesiana memoria: “Non fate troppi pettegolezzi”. Se il romanzo va avanti, e se io sono qui a parlare con voi – grazie! -, vuol dire che l’unica soluzione, in questi casi, anche se fa male, è reagire, aggrapparsi a quella che chiamo la “felicità delle piccole cose”.

Quando meno te lo aspetti, ti sveglierai un giorno senza pensare, per un momento, all’aborto, al fatto che forse non sarai mai madre, ma avrai di nuovo voglia delle cose normali: una cena, comprarsi un vestito, un aperitivo con le amiche, la palestra (prima della fecondazione sia io sia Gioia eravamo due sportive).

Ironia, intensità e una scrittura che scuote l’anima. E’ stato difficile affrontare un tema come quello dell’infertilità?

La fecondazione assistita, mentre scrivevo questo libro, che mi è “costato” undici stesure circa e quattro anni di lavoro, era un argomento tabù. Gli stessi editori che poi hanno fatto a gara per avermi, mi avevano detto che l’avrebbero pubblicato, togliendo però le parti su questo tema. Io ho resistito, era questa la prima storia che avevo voglia di raccontare, una vicenda che ha segnato profondamente il mio corpo, la mia vita privata, e ho avuto ragione. La letteratura deve dire l’indicibile. Se non ci occupiamo noi scrittori dei grandi temi, chi dovrebbe farlo? Ho parlato di siringhe di ormoni nella pancia, medici, operazioni, sbalzi di peso e d’umore, ripercussioni sulla coppia con l’ironia che metto in tutte le cose della vita, con l’approccio che mi contraddistingue: in un modo serio, ma senza mai perdere la speranza. Si piange, leggendo questo romanzo, ma si sorride, si spera, si lotta e ci s’innamora anche. Inoltre, porta fertilità. Chi lo legge trova la forza di completare il percorso della fecondazione, oltre a molte informazioni utili, e i tanti che hanno avuto a che fare con l’opera hanno figliato alla grande.

All’interno del libro affronti anche un altro aspetto spesso trascurato dell’infertilità: il percorso della coppia. Gioia si troverà sola ad affrontare tutto l’iter terapeutico e soffrirà per l’atteggiamento del suo compagno. Credi che questo sia comune a molte coppie? E perché?

Il fidanzato storico di Gioia, colui il quale avrebbe dovuto affrontare con lei la fecondazione assistita, si chiama, non a caso, Uto. Un nome che amo molto, ispirato al violinista Uto Ughi e al libro più sottovalutato di Andrea De Carlo, ma anche il simbolo dell’Utopia. L’amore con la A maiuscola forse non esiste, un po’ come Babbo Natale e il Principe Azzurro. Uto è un uomo che ha paura, di assumersi responsabilità, di diventare padre, nonostante stia con Gioia da anni, di condividere le sue risorse materiali con lei, perfino di tenerle la mano mentre si buca la pancia e si gonfia di ormoni, per dargli un figlio. Non ha paura però di farle male, come scopriremo nel corso del libro, che è ricco di colpi di scena, ma questo è tipico della maggior parte degli uomini che ho incontrato (mi spiace per loro).

Alle donne che si sentissero abbandonate dal proprio compagno durante la fecondazione o che, di fatto, restassero sole – succede spesso -, consiglio di non mollare. Fare un figlio da single, purché se ne abbiano i mezzi materiali e psicologici, è molto meglio di tante famiglie disfunzionali, che ci hanno traumatizzato, dietro la patina della “normalità”.

La fine del libro lascia una porta aperta. Che consiglio daresti a chi oggi si trova nei panni di Gioia?

Un po’ avevo anticipato questa risposta. Non sveliamo il finale, che è a sorpresa, ma alle tante Gioie in giro per l’Italia e per il mondo, direi, con tutto il cuore, per favore ascoltatemi, di non mollare.

Essendo la fecondazione un percorso molto pesante dal punto di vista fisico, psicologico, materiale, se potete, portatelo a termine. Non spaventatevi nei momenti, inevitabili, di crisi, che sarete costrette ad affrontare. Ma, devo anche dirvi, sempre con il cuore, che si può essere felici anche senza avere figli. Per chi ci crede, esiste una cosa più grande di noi: si chiama destino. Bisogna fare pace con il proprio destino.

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