Lo spazio di oggi della rubrica #oltrelestorie è dedicato a Serena Marchi, autrice del libro “Madri, comunque”, trenta testimonianze sul modo di essere mamma oggi.
Ciao Serena, il tuo libro “Madri, comunque”, edito da Fandango, raccoglie trenta storie, alcune sofferte e altre felici, di trenta modi di essere o non essere madri. Cosa ti ha spinta a scrivere un libro su un tema così delicato e al tempo stesso così bistrattato come quello della maternità?
Avevo una rubrica tutta mia su un mensile femminile, “La Verona”. Ero l’unica della redazione ad avere figli così le due direttrici mi affidarono la sezione “Donna e mamma”. Decisi di non dare consigli sulla nanna, sui biberon, su coliche e vestitini. Credo da sempre che ogni madre debba fare, con i propri figli, quello che la fa stare meglio e ascoltare il meno possibile gli altri. Così scelsi di raccontare storie di madri. Quella rubrica durò due anni, alla fine dei quali decisi di raccogliere le esperienze già raccolte e di aggiungerne altre, così da dare il più possibile una visione differenziata e infinita della maternità. Ogni madre è una madre a sé.
Hai esplorato l’universo della maternità attraverso le sue protagoniste, un caleidoscopio di voci e testimonianze autentiche per raccontare che non esiste un modo univoco di essere madre. Secondo te perché è così difficile abbattere tutti gli stereotipi che ruotano ancora intorno alla maternità?
Bella domanda. Credo di essere una delle poche che non vede l’ora che gli uomini possano finalmente partorire. Viviamo in un periodo storico in cui il binomio maternità-gravidanza ha assunto un valore dal mio punto di vista preoccupante. Se non partorisci non sei madre e se non hai partorito non sei una donna completa e vali meno rispetto a chi l’ha portato un figlio in grembo. Assurdo. Le femministe negli anni Settanta hanno lottato per separare il termine maternità da quello di gravidanza, così da liberare completamente il corpo delle donne dall’obbligo di portare in grembo i figli. Oggi c’è un allarmante ritorno alla sacralità della gravidanza e del rapporto tra donna-feto. Non dico che non esista, anzi. Per me è stato così. Ma per tante altre no. Vanno rispettate. Ci sono madri adottive, madri affidatarie, persone che crescono altre persone. Cosa sono? Madri di serie B? E i padri, gli uomini, valgono meno solo perché non hanno partorito? Sul corpo delle donne da sempre i Governi legiferano e i maschi comandano. Basti pensare alle leggi sull’aborto, sulla procreazione assistita, sull’eterologa. Non ci sono leggi sull’uso del viagra, per esempio. Gli stereotipi della maternità servono per tener legate le donne a un’idea di ‘dovere partorire figli’. E la cosa allarmante, dal mio punto di vista, è che ci sono tante donne convinte di ciò.
Nel libro racconti storie molte diverse: mamme in affido; mamme lesbiche; mamme in sedia a rotelle, mamme violente, madri di figli non propri e uomini che da padri diventano madri. Qual è quella che emotivamente ti ha colpito di più?
Sono legata a tutte le mie madri. Con ognuna di loro ho un momento, un’emozione, un ricordo che mi riporta il nostro incontro. Basti pensare che con gran parte di loro sono ancora in contatto e che tra qualche settimana celebrerò il matrimonio tra Simonetta, la mamma lesbica del mio libro, e la sua compagna Morena. Quella che però mi ha colpito di più emotivamente è stata l’incontro in ospedale psichiatrico giudiziario con la figlicida. Ecco, quello credo non me lo dimenticherò mai.
Sarà in libreria dal 2 marzo la tua seconda opera, “Mio, tuo, suo, loro”, sempre con Fandango, in cui racconti la maternità surrogata, attraverso storie di donne che decidono di portare in grembo i figli di qualcun altro. Vuoi anticiparci qualcosa?
“Mio, tuo, suo, loro” per me è stato un vero e proprio viaggio, sia fisico -perché le ho incontrate tutte di persona e quindi ho preso aerei e macinato chilometri- sia mentale in un mondo, quello di chi partorisce figli per altri, di cui tutti si sentono giudici e giudicanti senza conoscere l’argomento e soprattutto senza aver mai parlato con le protagoniste. Io ho voluto proprio fare questo: dare voce a chi, soprattutto nell’acceso e violento dibattito italiano, non ne ha fino ad oggi mai avuta.